LECTIO DIVINA SUL VANGELO domenicale - 16
12 febbraio 2017 – 6ª domenica del Tempo Ordinario
Ciclo liturgico: anno A
Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra,
perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli.
Matteo 5,17-37 (Sir 15,15-20 - Salmo: 118 - 1 Cor 2,6-10)
O Dio, che riveli la pienezza della legge nella giustizia nuova fondata sull’amore, fa’ che il popolo cristiano, radunato per offrirti il sacrificio perfetto, sia coerente con le esigenze del Vangelo, e diventi per ogni uomo segno di riconciliazione e di pace.
Spunti per la riflessione
Pacificati, fedeli, autentici
È sale la Parola del Maestro, è luce.
Insaporisce la vita, la illumina, ci rende discepoli capaci di annunciare alle tante Zabulon e Neftali che il Regno si è fatto vicino, che l’agnello che porta il peccato e il dolore del mondo, il Figlio di Dio, ci viene incontro.
Il cuore del Vangelo, le beatitudini, non sono la falsa promessa di un mondo che non esiste, né l’esaltazione della sofferenza ma l’adempimento della Legge. Gesù non è un anarchico, non è venuto per cancellare ma per riportare all’origine.
Perché, lo sappiamo bene, il rischio di ogni fede, di ogni religione, è quello di sedersi, di adattare, di ribassare. Ed è esattamente ciò che stiamo vivendo in questi tempi cui il Signore ci chiede di portare frutto.
La fede cristiana non può procedere per abitudine, per tradizione (buona e santa). In un mondo che evolve in fretta rischia di apparire e di essere legata al passato, a una sensibilità nostalgica e rassicurante che produce tradizionalismo, non discepolato.
Gesù è lo stesso ieri, oggi e sempre, ma il modo che abbiamo di accoglierlo, di vivere la sua Parola, di annunciare il Regno che egli è venuto inaugurare, è in continua evoluzione.
Le nostre parrocchie faticano a percepirsi come comunità radunate dal Risorto che in lui trovano forza e luce.
Superare
Davanti alla devastante provocazione del Signore nelle beatitudini, corriamo il rischio di imitare la giustizia dei farisei, di accontentarci di vivere la superficie del cambiamento, per sentirci a posto con la coscienza, per metterci nel gruppo dei bravi ragazzi di cui Dio deve in qualche modo tenere conto.
Nessuna logica al ribasso. Gesù ci chiede di guardare e di vivere in alto.
Dopo avere proclamato il suo programma di vita, il segreto della felicità, Gesù dedica un lungo discorso ad approfondire alcuni temi che da quelle parole vengono illuminati e innalzati.
Esiste cioè un modo di basso profilo per vivere la vita, anche quella spirituale.
O il modo secondo Gesù.
Nel brano che abbiamo proclamato oggi, il Maestro parla della violenza, della fedeltà, dell’autenticità.
Pacificati
Il primo tema affrontato in maniera esemplare è quello difficile della violenza e dell’omicidio, peraltro condannato dalla Torà che prevede la pena capitale (Es 20,13;21,12).
Gesù amplia l’idea dell’omicidio allargandolo alla maldicenza e al giudizio. Il discorso del perdono ai fratelli è legato alla tradizione del kippur: Dio perdona i peccati commessi contro di lui ma solo il fratello perdona i peccati commessi al fratello.
Non è l’atto a stabilire la gravità di un’azione ma anche la sua intenzione. Posso vivere e coltivare l’odio senza apparentemente mai commettere un gesto riprovevole, così come posso usare la lingua come un’arma affilata e uccidere.
Come comportarci? Tacendo? Ci sono situazioni che chiedono una parola di verità, che è quella del Dio che fa piovere su giusti e colpevoli. Ma è sempre una Parola sul gesto, non sulla persona. È così triste vedere cristiani che sparlano e giudicano gli altri!
Ribadisco: giudicare sì, ma nella logica del Vangelo, della misericordia, della compassione.
A volte, addirittura, la verità aiuta, incoraggia, accende. Ed è esigente.
Il divieto di uccisione non è limitato all’azione fisica ma anche, e soprattutto, a quella della volontà: posso uccidere col pensiero, con le parole, col giudizio… senza usare un’arma!
Fedeli
La stessa logica avviene rispetto al ruolo della donna.
Gesù è e resta un uomo (maschio) del suo tempo e la donna, nella logica biblica, è senz’altro soggetta all’azione del padre prima e del marito poi. Eppure l’affermazione di Gesù ha fatto certamente riflettere molti.
Gesù afferma che è possibile essere una coppia fedele e felice. Che non è illusorio, folle, impossibile, ma che è desiderio di Dio. Questo richiede una concezione della coppia tutta particolare, biblica, appunto, al cui interno viene riletta anche la sessualità.
Una coppia che ha scoperto di condividere la propria anima, di essere dono l’uno per l’altro, semplicemente, non ha bisogno di adulterio! Non ne sente l’esigenza, sente una forte tensione verso il proprio partner, anche erotica.
Certo, uno apprezza la bellezza di un’altra donna, di un altro uomo, ma sono apprezzamenti estetici: alla base esiste il rispetto per la persona nel suo insieme, non riducendolo a pezzo (da questo punto di vista mi chiedo se occhio/mano non si riferisca a questa oggettivazione). In questa prospettiva non è onesta una sessualità che non tenda ad un progetto.
Gesù vola altissimo: non sta castrando l’uomo cacciatore e amenità del genere, ma propone una nuova relazione uomo/donna che non abbia più necessità di vie di fuga.
Autentici
Il giuramento è una pratica comune a tutti i popoli, la Bibbia la attribuisce sia agli uomini che a Dio (Gn 22,16; Dt 1,8; Sal 132,11-12…). È una sorta di atto sociale e sacro, l’ultima garanzia di verità che l’uomo può offrire al suo simile.
La Torà disapprova solo lo spergiuro, le inadempienze, la falsità; Gesù, invece, disapprova ogni tipo di giuramento, in contrasto con gli abusi che vedeva: era abituale intercalare il giuramento fra i giudei del suo tempo.
L’abuso di giuramento è indice di sfiducia, di diffidenza, di insincerità. Scredita la Parola e Dio: la proibizione di Gesù è un appello alla verità, prima che a Dio, alla carità, distrutta dal dubbio e dalla reciproca diffidenza. Al di fuori della sincerità vi è solo la menzogna che, ricorda Giovanni, ha per padre il maligno (8,44).
Il discepolo è chiamato ad essere sincero, ad essere autentico anzitutto con sé stesso.
La prima menzogna da evitare è con se stessi. Quando incontriamo Dio e ci specchiamo in lui non abbiamo più necessità di apparire diversi, di farci migliori, di apparire. Quando ci avviciniamo a Dio scopriamo noi stessi, anche le nostre ombre, certo, che vengono però rilette alla luce della Parola. Ciò detto, se siamo chiamati ad essere sempre sinceri senza giurare, non è detto che siamo chiamati a dire tutto a tutti. Ci sono persone impudenti e curiose, persone da cui difendersi (non diamo le perle ai porci!). Accanto al concetto di autenticità e verità mettiamo quello di riservatezza e pudore.
Ricercare l’autenticità in noi stessi non è certo facile. Ci aiuta il confronto con la Parola di Dio, la direzione spirituale, il consiglio di qualche prezioso amico. Per farlo occorre molta umiltà, cioè senso del reale e del concreto e l’accompagnamento dei santi.
Ed è possibile tutto questo: Gesù per primo lo ha vissuto.
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L’Autore
Paolo Curtaz
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Esegesi biblica
LA LEGGE E IL VANGELO (5, 17-37)
Molto probabilmente il Vangelo di Matteo fu scritto verso gli anni 80 in una comunità giudeo-cristiana. È il tempo in cui il giudaismo, persa ogni consistenza politica e territoriale a causa della guerra dell’anno 70, serra le fila in un rinnovato attaccamento alla Legge, che godeva di una sacralità e di un valore salvifico nel giudaismo farisaico. La Legge era considerata la somma di ogni saggezza - umana e divina - la rivelazione di Dio stesso, una guida completa e sicura di condotta che garantiva i buoni rapporti con Dio e per la maggior parte dei Giudei la legge era implicitamente la rivelazione definitiva di Dio. La sinagoga espelle gli eretici e fissa i confini della propria ortodossia.
Questo pone degli interrogativi alla comunità di Matteo, la quale è per lo più formata da cristiani provenienti dal giudaismo che vive ai confini della Palestina. Uno degli interrogativi è questo: in che cosa consiste l’originalità cristiana nei confronti della rinnovata ortodossia giudaica?
A questo punto comprendiamo bene perché Matteo sviluppa il suo Vangelo attraverso un continuo dibattito-confronto con la giustizia degli scribi e farisei. È in questa prospettiva che il discorso della montagna deve essere letto. Esso vuole chiarire, da una parte, l’originalità della giustizia cristiana, cioè la differenza tra il cristiano e il giudeo; dall’altra, vuole mostrare la piena conformità del messaggio di Cristo alle Scritture. La conclusione a cui Matteo giunge può sembrare paradossale: il vero giudeo è colui che si fa cristiano.
Il discorso della montagna è preceduto dalle beatitudini, che noi sappiamo essere non soltanto un ideale da vivere, ma ancor prima una proclamazione che il regno di Dio è arrivato. Ritroviamo così uno schema comune a tutti i discorsi morali del NT: prima il Vangelo e poi la legge, prima il dono di Dio e poi la risposta dell’uomo. Se non tenessimo presente questo aspetto essenziale, rischieremmo di fraintendere il discorso di Matteo: correremmo il rischio di ridurlo a una nuova casistica e a un nuovo elenco di leggi che è necessario osservare per essere giusti di fronte a Dio.
Due elementi possono far da guida alla nostra lettura:
- Primo: scorgiamo all’inizio del discorso due atteggiamenti in apparenza contrastanti; da una parte, la pretesa di essere in continuità con la legge antica: “Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire ma per portare a compimento” (5,17). Dall’altra, un chiaro e ripetuto atteggiamento di rottura. “Avete udito ciò che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” (5,21 ss.).
La nostra lettura non può eludere questo contrasto, deve invece comprenderlo e risolverlo.
- Secondo: il v. 20 “Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli” può essere considerato il titolo dell’intero discorso, e offre un comodo criterio per individuarne le parti. Il versetto citato lascia intravedere tre giustizie: la giustizia degli scribi, dei farisei e dei discepoli. Matteo contrappone, in una prima parte, il pensiero di Gesù alla giustizia degli scribi (le cui antitesi sono contenute in 5,21-48), nella seconda parte, l’opposizione di Gesù alle pratiche dei farisei (elemosina, preghiere e digiuno: 6,1-18); infine, la terza parte, la giustizia “superiore” del discepolo (6,19-7,27).
Parlando di giustizia superiore Matteo non intende una superiorità nella quantità (più digiuno, più preghiera e più elemosina), ma una superiorità nella qualità.
E per giustizia Matteo non intende ciò che noi comunemente intendiamo (e cioè la parità tra il dare e l’avere nei rapporti fra gli uomini), ma, più semplicemente, la volontà di Dio.
Matteo ci pone di fronte a una serie di antitesi (5,21-48), che toccano diversi punti della legge, scelti evidentemente tra i molti possibili. Non è una scelta fatta a caso: tre riguardano il comportamento verso il prossimo (e tutti e tre mettono in luce la carità); due il comportamento sessuale e il matrimonio; uno il giuramento.
Matteo non vuole indicarci delle leggi precise da mutare, quanto piuttosto un modo diverso di leggere la Scrittura e di scoprirne la volontà di Dio: diciamo un modo diverso di elaborare la morale.
Occorre una corretta visione di Dio e del suo disegno di salvezza, un modo corretto di leggere le Scritture. Sta qui la contrapposizione fra Gesù e gli scribi. Come i profeti che l’hanno preceduto, anche Gesù si è sforzato di recuperare il centro della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso. In questo senso l’affermazione più importante la troviamo al v. 48: “Siate perfetti come il Padre vostro celeste”.
Non è una perfezione qualsiasi, ma la perfezione della carità e del perdono: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Ecco una prima ragione per cui si può chiamare “superiore” la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento.
Discutendo il caso di divorzio (v. 31) Gesù cita un testo di Dt (24,1), ma, sebbene consapevole che il Deuteronomio sia parola di Dio, egli lo giudica secondario rispetto a un passo di Genesi (1,27; 2,24). C’è dunque testo e testo: alcuni testi sono più importanti e altri meno. I primi rivelano l’intenzione profonda e originaria di Dio, i secondi pagano un tributo alla durezza di cuore degli uomini. Con questo Gesù offre agli scribi una lezione di metodo: per cogliere la volontà di Dio occorre essere capaci di una lettura globale della Scrittura: una lettura che sappia distinguere fra la logica di fondo e le sue espressioni parziali e provvisorie. Questa è la seconda ragione per cui la giustizia del discepolo può essere superiore.
Siamo ora in grado di risolvere l’antinomia fra continuità e rottura rilevata all’inizio.
Il messaggio di Gesù è in continuità con l’AT, ne recupera il centro e la tensione. Non introduce nella legge novità prese in prestito altrove e non fa correzioni in base a una logica estranea alla Scrittura: ne recupera, invece, l’intenzione di fondo e porta questa a compimento. Continuità, dunque, ma tale continuità è anche novità che esige conversione, perché critica nei confronti degli schemi precedenti nei quali si finisce sempre con l’accomodarsi.